Il successo


Il giovane Eduardo Scarpetta continuava ad essere scritturato dalle più note compagnie napoletane e non e ad essere enormemente acclamato dal pubblico. Antonio Petito era ormai morto già da qualche anno ed insieme con lui erano terminati i tempi del “tutto esaurito” al San Carlino (foto 13a e 13b). Gli incassi erano sempre più miseri e presto si diffuse la voce di una imminente chiusura del teatro. Eduardo Scarpetta aveva ventisette anni circa all’epoca e, stanco del continuo girovagare da una compagnia all’altra, da un teatro all’altro, sentì sempre più forte il bisogno di una stabilità. Decise così di rilevare e rimettere completamente a nuovo il teatro San Carlino ridotto ormai allo sfacelo. Furono non pochi i sacrifici, ma con un prestito di cinquemila lire da parte dell’avvocato Francesco Severo i lavori di restauro, diretti dall’ingegnere Aiello, poterono cominciare (foto 14 e 15a).

Nel settembre del 1880 Eduardo Scarpetta riapre così lo storico teatro di Piazza Castello completamente rinnovato nell’aspetto e nel repertorio. Anche i gusti del pubblico, infatti, erano nel frattempo cambiati; “la gente voleva ridere”, ma in modo diverso. Il repertorio della tradizione napoletana era diventato obsoleto e gli intrecci troppo ingenui, legati com’erano a quell’epoca romantica ormai in declino. Eduardo Scarpetta cominciò così a scrivere commedie brillanti ispirandosi ai vaudevilles della belle epoque che in Francia “dettavano moda”. Le sue non erano semplici traduzioni dal francese al napoletano, ma erano riletture complete che lasciavano intravedere solo l’intreccio dell’originale; i caratteri, le battute, erano completamente reinventate dalla feconda fantasia di quel giovane e nascente talento che aveva capito qual era l’esigenza del pubblico: ridere con intelligenza. Da quel primo debutto al San Carlino iniziò per Eduardo Scarpetta la grande scalata che avrebbe definitivamente suggellato la sua fama. Per più di cinquant’anni Eduardo Scarpetta calca le scene dei più grandi teatri italiani, inventando un nuovo modo di far ridere. Il successo non l’abbandonò mai e della sua città diventò “il re borghese”, colui che era capace di tutto e da cui c’era da aspettarsi qualsiasi “pazzaria”. Potere, denaro, fama ed il suo innato ottimismo lo accompagnarono per sempre. E fu proprio grazie alla sua placida imperturbabilità che superò gli ostacoli che inevitabilmente incontrò per la sua strada.

 

Villa Santarella


Eduardo Scarpetta volle che fosse costruita secondo sue precise disposizioni. Infatti era in una posizione incantevole, sul ciglio della collina del Vomero, con la facciata rivolta verso il mare (foto 15b e 16). Guardandola dal balcone di Palazzo Scarpetta al Rione Amedeo, (oggi via Vittoria Colonna) che era in posizione molto bassa rispetto alla collina, appariva tozza e quadrata e un giorno Scarpetta osservandola adagiata sornionamente sulla collina con le sue quattro torrette sporgenti poste in cima esclamò: “Me pare nu comò sotto e ‘ncoppa!…” Non amò mai di vero cuore questa sua incantevole villa, il cui nome con l’aggiunta della dicitura incisa sul granito del portale Qui rido io ha girato il mondo. 

Quando fu costruita, il Vomero era davvero quel Vommero solitario di cui favoleggiava il poeta: agreste e profumato, silenzioso e tranquillo, tale si mantenne ancora per molti anni, durante i quali la solitudine e il silenzio della zona tanto impressionarono la moglie Rosa che Scarpetta fu costretto nel 1911 a disfarsi della Villa. Il primo piano fu venduto all’oculista Sbordone e il secondo ad un prete, il reverendo Fiorentino, che per poche decine di migliaia di lire ottenne la proprietà delle mura con relativi mobili e suppellettili. In quel periodo Scarpetta era davvero un piccolo re. Cosa mancava a quest’uomo, idolatrato dalle platee, vezzeggiato dai potenti, profuso di ricchezze e di onori? E la Santarella era la sua piccola Versailles (foto 17 e 18). Quando in settembre ricorreva il giorno di Santa Maria, onomastico della sua amatissima figlia, Eduardo Scarpetta invitava scritturati ed amici, artisti e poeti, giornalisti e scrittori. In quelle occasioni egli indiceva un vero e proprio certame di poesie, mettendo in palio ricchi premi per coloro i quali componevano il più bel sonetto in onore della sua adorata figlia. 

Quelle che si svolgevano alla Villa Santarella erano cene fastosissime di cui si sentiva parlare l’indomani tutta Napoli. Ma dell’ospitalità, della generosità e soprattutto della fantasia di quest’uomo erano testimonianze i cosiddetti “fuochi”. Infatti in queste liete ricorrenze egli era solito organizzare grandi spettacoli di fuochi pirotecnici; così, a mezzanotte la Santarella s’incendiava di meravigliosi colori che gli invitati osservavano sbalorditi dalla Villa e ancora di più dai balconi del Rione Amedeo quando le feste si svolgevano a Palazzo Scarpetta. A questo spettacolo, divenuto in pochi anni tradizione, assistevano non solo gli invitati, ma buona parte della città, quella tra il monte Echia e il capo di Posillipo, così come si usa assistere ai festeggiamenti in occasione di ricorrenze famose e feste popolari. 

– “Stasera ce stanno ‘e fuochi ‘ncopp’ ‘a Villa Santarella!”
– “Ih…. che sape fa chillu Scarpetta! Nun ce sta niente ‘a fa, chesta è l’epoca dei Sciosciammocca!”
– “La fortuna è degli istrioni!”
– “Pozza campà cient ‘anne … almeno ce fa scurdà ‘guaie d’ ‘a vita!


Queste erano più o meno le espressioni che ricorrevano sulle bocche di tutti e che molti riferivano a parenti e amici di Scarpetta. La Santarella e il suo padrone facevano leggenda.